Da: Tommaso d’Aquino, De ente et essentia

Risorsa: traduzione
Autore: Tommaso d’Aquino
Traduttore: Martino Sacchi

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Capitolo 1

Bisogna sapere che, come dice Aristotele nel quinto libro della Metafisica, l’ente per sé si dice in due sensi: il primo è quello per cui si divide nelle dieci categorie, il secondo è quello che esprime, nelle proposizioni, il loro essere vere.
La differenza sta nel fatto che nel secondo senso può essere detto «ente» tutto ciò su cui può essere formulato un giudizio affermativo, anche se ciò non pone nulla come esistente nella realtà. In questo senso anche le negazioni e le privazioni si dicono «enti»: infatti diciamo: «l’affermazione è opposta alla negazione», oppure: «la cecità è nell’occhio».
Ma nel primo senso non si può dire ente se non ciò che ponga qualcosa come esistente nella realtà, e di conseguenza, secondo questo modo di intendere il termine ente, la cecità e le realtà di questo tipo non sono enti.
Il termine «essenza» non deriva quindi dall’ente inteso nel secondo senso, poiché in riferimento ad esso sono dette enti delle realtà che non hanno essenza, come è evidente nelle privazioni: piuttosto, il concetto di essenza deriva dall’ente inteso nel primo senso. Perciò Averroè, nello stesso luogo, nota che l’ente inteso nel primo senso è ciò che indica l’essenza della cosa. E poiché, come si è detto, l’ente inteso in questo senso si divide nelle dieci categorie, è necessario che il termine «essenza» si riferisca a qualcosa di comune a tutte le nature, per le quali i diversi enti vengono collocati nei diversi generi e specie, come l’umanità è l’essenza dell’uomo e così via. E poiché ciò per cui le cose sono costituite nel proprio genere o specie è ciò che indichiamo con la definizione che dice cosa è quella realtà, i filosofi trasformano il termine essenza in quello di «quiddità»: è questo ciò che Aristotele spesso chiama quod quid erat esse, ossia ciò per cui qualcosa è qualcosa di determinato.
L’essenza viene anche detta forma, in quanto con questa parola si indica l’essere determinato di ogni cosa, come dice Avicenna nel secondo libro della sua Metafisica. Infine può essere detta anche «natura», assumendo il termine nel primo dei quattro sensi che Boezio, nel De duabus naturis, gli assegna, secondo il quale natura è ciò che in qualunque modo può essere colto dall’intelletto. Infatti una realtà non è intelligibile se non attraverso la sua essenza e la sua definizione: e infatti Aristotele dice, nel quinto libro della Metafisica che ogni sostanza è «natura».
Il termine natura, assunto in questo significato, sembra indicare soprattutto l’essenza di una certa cosa in quanto è essa è indirizzata all’operazione che le è propria (nessuna realtà infatti può essere priva di una capacità di agire che le sia propria e connaturata).
Il concetto di «quiddità» deriva dal fatto che in esso viene espresso il «quid» che è indicato dalla definizione, mentre l’«essenza» si chiama così in quanto con essa e in essa l’ente ha l’essere.
Ma poiché l’ente è in senso assoluto e primario la sostanza, e solo secondariamente e in senso relativo gli accidenti, l’essenza in senso vero e proprio è nelle sostanze, mentre negli accidenti si trova solo in un certo senso e relativamente a un certo punto di vista.
Tra le sostanze alcune sono semplici e altre composte: in entrambe c’è l’essenza, ma in modo più vero e più nobile in quelle semplici, per il fatto che possiedono un essere più nobile.

Da qui segue necessariamente che l’essenza, in forza della quale la cosa viene detta ente, non sia solo forma o solo materia, ma entrambe, sebbene solo la forma sia, a suo modo, la causa di questo essere.
Infatti vediamo qui, come in altri casi, che le cose che sono costituite di più principi non traggono il loro nome da uno solo di quei principi, ma da ciò che li raccoglie entrambi. Ciò è evidente nei sapori: la dolcezza è causata dall’azione del caldo che digerisce l’umido, e sebbene sia il calore la causa della dolcezza, tuttavia un corpo non viene detto dolce per il calore, ma per il sapore, che appunto comprende sia il caldo sia l’umido.
Ma dato che il principio di individuazione è la materia, potrebbe sembrare che da ciò segua che l’essenza, che raccoglie contemporaneamente in sé forma e materia, sia soltanto particolare e non universale. La conseguenza sarebbe che gli universali non avrebbero una definizione, dato che l’essenza è ciò che viene indicato con la definizione.
Bisogna perciò sapere che non la materia intesa in qualunque senso è principio di individuazione, ma solo quella che chiamo la materia estesa [«materia signata»], e cioè quella che può essere considerata nelle dimensioni dello spazio.
Questa materia non entra nella definizione di uomo in quanto uomo, ma entrerebbe nella definizione di Socrate, se Socrate avesse una definizione. Nella definizione di uomo entra invece la materia non signata perché nella definizione di uomo non entra questo osso e questa carne, ma l’osso e la carne intesi in senso assoluto, che sono, appunto, la materia dell’uomo intesa come non caratterizzata [«non signata»] dalla quantità. Risulta quindi evidente che l’essenza dell’uomo e quella di Socrate non differiscono se non per il fatto che nella seconda esiste qualcosa di determinato quantitativamente e nella prima no:

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